Fernando Pessoa, considerato uno dei maggiori poeti di lingua portoghese, colui che, secondo il critico letterario Harold Bloom, è, accanto a Pablo Neruda, il poeta più rappresentativo del XX secolo, è conosciuto in larga parte in Italia per merito di un altro scrittore, Antonio Tabucchi, suo grande estimatore. Tabucchi ha tradotto e curato molte delle sue opere, e, anni fa, ha pubblicato con Feltrinelli un libriccino dal titolo “Il poeta è un fingitore”: una sorta di Baedeker privato per navigare nella scrittura di Pessoa, una piccola raccolta di pietre miliari dei suoi scritti, come dice lo stesso Tabucchi. Perle di scrittura, di poesia, di saggezza, trascritte via via su un taccuino e restituite a noi lettori da parte di un lettore, a sua volta, privilegiato.
“Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente”.
Se pensiamo che la parola “fingere” giunge al suo significato attraverso l’etimo suo proprio di “costruire”, ecco che il lavoro del poeta è lavoro di costruzione che porta alla finzione, di un'altra realtà o stato d’animo. I margini, il fuori centro, una dimensione altra, sono questi i luoghi del poeta.
“Essere poeta non è una mia ambizione.
È la mia maniera di stare solo”.
È proprio del poeta porsi domande:
“Cosa so? Cosa cerco? Cosa sento? Cosa chiederei
se dovessi chiedere?”.
Il poeta ha come orizzonte interiore il mondo. Con totale empatia.
”Sentire tutto in tutte le maniere,
vivere tutto da tutte le parti,
essere la stessa cosa in tutti i modi possibili
allo stesso tempo”.
Domande. Attesa. Apertura. Viaggio.
Perché “grandi misteri abitano/la soglia del mio essere”.