domenica 13 maggio 2012
MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO
Un momento di sospensione quasi assoluta, in cui la vita
sembra essersi arrestata in forme, immagini e apparenze, in
un colloquio muto tra persone e cose. Eugenio Montale compone
la poesia “Meriggiare pallido e assorto” nel 1916. Il
paesaggio della poesia forse più famosa della prima raccolta
montaliana (“Ossi di seppia”) è arido e scabro, la cognizione
esistenziale è arida, prosciugata, desolata (“ossi”,
“crepe”, “calvi picchi”, “sterpi”). Il sole abbaglia, il muro
dell’orto è rovente, la meraviglia è triste. Le increspature del
mare, colpite dal sole a picco, luccicano come scaglie. In
“Non chiederci la parola”, Montale parla della poesia come
di una “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. Osserviamo
una prigione esistenziale, e l’osservazione desolata
della “vita e del suo travaglio”, in forte assonanza con un
altro grande poeta, Thomas Stearns Eliot.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
Eugenio Montale
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