venerdì 28 ottobre 2011

UN OMAGGIO A ANDREA ZANZOTTO - Giuliano Scabia

Andrea Zanzotto, grande poeta nato a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, è scomparso a una settimana dal compimento dei suoi novant'anni. Fu poeta di lingua «aspra e chioccia», irta e frusciante, che si muove, in lui poeta novecentesco, tra Dante e Petrarca. Poeta dai grandi temi: amore e morte, coraggio e paura, la vita come una serachiusascura: «Salti saltabecchi friggendo puro-pura / nel vuoto spinto outré / ti fai più in là / intangibile - tutto sommato - / tutto sommato / tutto / sei più in là / ti vedo nel fondo della mia serachiusascura / decedi verso / nel tuo sprofondi / brilli feroce inconsutile nonnulla / l'esplodente l'eclatante e non si sente /
nulla non si sente / no sei saltata più in là / ricca saltabeccantelà/L’oltraggio».
L’identità e la soggettività del poeta, e un’altra grande domanda della grande poesia: chi sono, io?


“[…] da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch'io sono …].


Giuliano Scabia, poeta, drammaturgo, romanziere, ha dedicato questo
omaggio al poeta:


“Non è vero che Andrea (Zanzotto) è morto.
Lo so di sicuro.
Mi ha strizzato l’occhio alcuni mesi fa, a casa sua –
e ci siamo messi d’accordo
(nell’occhio – che di là passa tutto)
e anche Uttino (il gatto) ha strizzato l’occhio – prima ad Andrea, poi a me.
Per questo so che Andrea (col gatto – come Petrarca)
è scappato dalla porta di dietro
e si è nascosto fra le erbe – a Ligonàs – nell’umido –
e là passeggia e coltiva visioni e paesaggi –
e se la ride.
Perché in 90 anni non ha imparato niente.
È sicuro che è là:
e so che ci sono anche Goffredo (Parise),
Mario (Rigoni-Stern), Gigi (Meneghello)
e probabilmente Comisso.
Sono là a Ligonàs ma hanno progetti di giro vagare:
a volte su in Altopiano – a casa Rigoni:
a volte a Malo – e anche a Urmalo – lungo il Leogra:
a volte a Salgareda – nella casetta di Parise:
a volte a Zero Branco – da Comisso mato.
A fare cosa?
A dirsi le novità, e qualche requiem, qualche libera nos – e anche stupidade.
E il gatto dietro.
Insomma vagano le terre di casa – e le pesteggiano.
Giorno e notte.
Non muoiono mica, gente così.
Lo so.
Prima di partire strizzano l’occhio.
Vero, Andrea Zanzotto?”.

venerdì 21 ottobre 2011

GOAL - Umberto Saba

Un goal durante una partita dicalcio. Il poeta – Umberto Saba - celebra uno dei pochi momenti di gioia pura, dice, che sia dato vedere sotto il sole. Gli uomini sono rosi e consumati ogni giorno dall’odio, dalle passioni; eppure, ritornano qualche volta fanciulli, capaci di queste lacrime, di questa ebbrezza. Tutto il componimento è immerso in un’atmosfera libera, aperta, e la resa stilistica, pur con il linguaggio piano che è proprio di Saba,
pare assumere un tono di epica quotidiana. Saba scrisse “Cinque poesie sul gioco del calcio”, e così diceva,
di questo sport: “E’ (il gioco) più popolare che ci sia oggi, ed è quello in cui si esprimono con più appassionata evidenza le passioni elementari della folla. L’atmosfera che si forma intorno a quegli undici fratelli che difendono la madre è il più delle volte così accesa da lasciare incancellabili impronte in chi ci è vissuto dentro. E questo per non parlare della bellezza visiva dello spettacolo, dei gesti necessari dei giocatori durante lo svolgimento della gara. Che dire poi di quello che succede tra il pubblico e i giocatori quando una squadra paesana riesce a segnare un goal contro una squadra superiore (la cui superiorità molte volte è dovuta a denaro) e rinnova, sotto gli occhi dei concittadini, lucenti alle lacrime, il miracolo di Davide che vince il gigante Golia?”

Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
- l'altro - è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte.

venerdì 14 ottobre 2011

LA RUOTA - Bertolt Brecht

Quando un componimento diventa di poesia? Quando, con parole dense di significato, con immagini essenziali eppure vive, palpitanti, riesce a suggerire un mondo di emozioni, che riguardino la ricerca esistenziale, oppure semplicemente un moto passeggero dell’animo, un battito di vita: uno squarcio di esistenza,insomma. Tale è la poesia di Bertolt Brecht che proponiamo. Il poeta, in poche righe, riesce ad esprimere compiutamente il senso di fugacità, di inutilità della vita, dell’insoddisfazione che rode, costante. Tutto, in questa poesia, si accentra attorno ad un’immagine: una ruota da cambiare, che viene ad assumere quasi un valore metafisico. Il poeta osserva questa ruota, simile, con il suo muoversi e girare continuo, alla propria vita, e l’insoddisfazione dilaga: “non sono contento di dove vengo,/non sono contento di dove vado". Par quasi di vedere il poeta stanco, deluso, seduto a meditare sulla propria vita,vista e riassunta nella ruota attorno a cui si affaccenda il guidatore. Come una grande ruota mossa indipendentemente dalla sua volontà, così la vita del poeta negli anni: prima nella sua terra natale, in Germania dove ha lottato contro il nazismo, poi in esilio, in Francia, Inghilterra, America. "Non sono contento”, dice. È qualcosa di ancora diverso dal disperato senso della vita che hanno i suoi avventurieri, i suoi straccioni, la sua "corte dei miracoli". Forse, è il senso di insoddisfazione che viene quando si è creduto fermamente in qualcosa - nel suo caso, nel socialismo – e, con l'andar degli anni, ci si pone domande sul senso della lotta e della militanza. Ma ecco che, proprio all'ultimo verso, una luce, uno sprazzo di vita illumina tutto, memoria retrospettiva e realtà presente,e lo riscatta: il poeta si accorge di guardare con impazienza il cambio della ruota. Di nuovo la ruota, di nuovo questo motivo centrale, ma ora non si tratta più di un pigro e inutile movimento: il poeta è impaziente che riprenda a girare, questa ruota simbolo, che racchiude in sé sia la ruota dell'auto, sia la ruota della propria vita; è impaziente di riprendere il viaggio,è curioso di sapere dove la ruota lo porterà. Scontento e insoddisfazione sono ancora lì, ma il poeta non lascia che lo condizionino, che lo fermino: ora vuole andare.

“Mi siedo al margine della strada.
Il guidatore cambia la ruota.
Non sono contento di dove vengo,
non sono contento di dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota
con impazienza?”

venerdì 7 ottobre 2011

-Antonio Machado

Una vita da serio professore, quella di Antonio Machado, nato nel 1875 a Siviglia, turbata dalla scomparsa della giovanissima moglie (si chiamava Leonor e il poeta l’aveva sposata appena quindicenne), e consolata dall’affetto del fratello Manuel, anch’egli scrittore, dall’amore alquanto misterioso per la poetessa Pilar de Valderrama, detta Guiomar, e illuminata da una limpida e spesso accorata vena poetica, oscillante tra romanticismo e simbolismo. Quando, nel 1936, scoppiò la guerra civile spagnola, il poeta si schierò a favore del governo repubblicano e, benché ormai anziano, lottò per i suoi ideali con grande energia. Dopo la sconfitta dell’esercito repubblicano e la caduta di Barcellona, Machado partì per l’esilio, attraversando i Pirenei a piedi per recarsi in Francia, insieme ad un gruppo di fuggiaschi tra cui sua madre, di ottantotto anni. Passata la frontiera il poeta andò ad abitare in un albergo di Collioure, dove spirò poco dopo, il 22 febbraio 1939. Grande la fortuna poetica di Machado: è stato riconosciuto come il maggior rappresentante della cosiddetta “Generazione del ‘98”. Trovò la sorgente segreta dell’equilibrio tra “il sentire del poeta e il freddo
delle cose”, in versi che spesso richiamano il ritmo delle canzoni popolari, rievocando l’antico spirito spagnolo, e filtrano una vasta cultura, con gentilezza e sensibilità:


Tu mi vedesti immergere le pure
Mani nell’acqua calma
Tese ai frutti incantati
Che sognano nel letto della fonte.
Sì, ti ricordo, sera lieta e chiara
Quasi di primavera.


Questo grande poeta seppe rimanere fedele a se stesso ed alla sua terra, e presentò, nella poesia, l’uomo con i suoi problemi, i dolori e i sentimenti. Machado fu sempre contro ogni disumanizzazione dell’arte, come anche contro ogni arido sperimentalismo. Scrisse infatti: “La poesia pura, di cui sento parlare critici e poeti, potrà esistere, ma io non la conosco”. Credeva cioè nella poesia che ignorasse giochi e cerebralismi.


Il tuo poeta
Pensa a te.
La lontananza
È di limone e violetta,
ancora verdi i campi.
Tu vieni con me, Guiomar;
c’inghiottiscono i monti.
Di querceto in querceto
Si spossa il giorno.
Divora il treno, divora
Giorno e rotaia. La ginestra
Passa nell’ombra, si snoda
L’oro del Guadarrama.
Perché una dea e il suo amante
Fuggono insieme, ansante
Li insegue la luna piena.