Il ventesimo secolo ci ha lasciato un'eredità poetica straordinaria quanto ingestibile […] il punto fermo […] è stato che l'attività poetica si configurava come un progetto totale, una rifondazione del mondo […]”. Lo ha scritto Alessandro Carrera. Se questo è vero per molta produzione poetica, non lo è, o lo è in modo molto parziale, per quella di Umberto Saba. Lo sguardo del poeta triestino abbraccia il mondo, ma la cifra del verseggiare è sommessa, il tono piano, le parole quotidiane, ma forti e ricche per il sapiente lavoro di posizionamento nella frase e nel componimento. Nella poesia che presentiamo, i passeri, che vanno e vengono al davanzale della finestra della stanza del poeta, non lo temono più, non fuggono più. Beccano i semi, e il poeta, nei loro occhietti neri, pare scorgere gratitudine. Egli riflette a voce alta: non fa proclami, non presenta visioni del mondo, ma, facendo appello alla verità della propria esperienza, afferma la presenza della Grazia e il bisogno, la necessità, vitale, diremmo, dell’amicizia.
QUASI UNA MORALITÀ
Più non mi temono i passeri. Vanno
vengono alla finestra indifferenti
al mio tranquillo muovermi nella stanza.
Trovano il miglio e la scagliuola: dono
spanto da un prodigo affine, accresciuto
dalla mia mano. Ed io li guardo muto
(per tema non si pentano) e mi pare
(vero o illusione non importa) leggere
nei neri occhietti, se coi miei s'incontrano,
quasi una gratitudine.
Fanciullo
od altro sii tu che mi ascolti, in pena
viva o in letizia (e più se in pena) apprendi
da chi ha molto sofferto, molto errato,
che ancora esiste la Grazia, e che il mondo
- TUTTO IL MONDO - ha bisogno d'amicizia"
Umberto Saba